191.
L’angoscia per la possibilità dell’esistenza, rendendo il presente un niente annullato fra la possibilità di un passato che poteva essere diversamente e quella di un futuro ignoto, imperscrutabile che sicuramente sarà altro da ciò che si può di esso immaginarsi, rende la felicità impossibile da essere raggiunta, poiché essa è il sentimento, è la gioia del e per il presente, è trarre il massimo piacere per la propria interiorità nel momento stesso in cui vi si è immersi senza più porgere attenzione al possibile, scordandosene. Se l’angoscia dell’ “E se?” è un sentimento figlio del possibile che sempre accompagna l’esistere, la felicità lo può essere solo del reale, di qualcosa di toccato e posseduto.
192.
Se la felicità è un qualcosa di sempre associato al suo essere presente in un momento preciso e delimitato, all’attimo, sempre affacciata sul baratro della sua possibile perdita, del suo annullamento, bisogna da essa imparare a fronteggiare l’esistenza, istante per istante, senza perdersi nel passato o affannarsi per un futuro che forse mai sarà. La felicità deve essere maestra nell’abituare un soggetto ad agire come nel suo godimento per il momento e nel momento, a cogliere ogni secondo della propria esistenza e a massimizzarne l’intensità, a renderlo un attimo speciale e indimenticabile che sia simbolo di un modo di porsi sempre teso alla positività sul cammino sulla strada del cambiamento. Per essere felici molte volte basterebbe ricordarsi e non dare per scontato il dono che è e che viene da altri consegnato con la condizione dell’esistenza, insieme al carico di bellezze e meraviglie che possono attendere anche quando il buio sembra in essa tiranneggiare.
193.
L’angoscia del “E se?”, trova la sua massima forza ed espressione nella per tutti ineludibile realtà della fine del cammino sulla strada del cambiamento, per ognuno solo diversamente per modo e momento lasciata alla possibilità. La fine che grava su ogni persona con nuda e tragica impossibilità di sottrarsi ad essa, sembra per un’interiorità non pacificata con sé e con il mondo, svuotare ogni gesto, ogni sforzo fatto, ogni relazione intrecciata nell’arco della propria esistenza volta al raggiungimento della felicità personale. L’angoscia della sua fine rende per un’interiorità ancor più difficile il rassegnarsi e il riuscire ad accettarla, anche a causa della sua imprevedibilità che lascia spazio alla paura di non esser pronti, di non aver raccolto e seminato felicità, abbastanza per staccarsi serenamente dall’esistenza.
194.
La sempre possibile e incombente fine che grava su ognuno è un qualcosa per cui si possa mai sperare di essere pronti pienamente, un qualcosa , che assieme alla paura che genera in un’interiorità, possa essere accettato, vinto o annullato realmente e totalmente; è un qualcosa da cui si può e si deve distogliere lo sguardo, da dimenticare e allo stesso tempo di cui tener viva e presente la realtà per riuscire a condurre un’esistenza piena in cui mai nulla venga dato per scontato e ogni momento sprecato. La fine dell’esistenza deve nondimeno essere un incentivo all’azione, non alla passività per raccogliere e donare quanta più felicità possibile nel tempo che è singolarmente dato. Se la fine dell’esistenza non può mai trovare pronta totalmente un’interiorità, è al darsi e all’essere dell’esistere che bisogna sempre rispondere con voce ferma e forte: “Presente!”.
195.
L’angoscia della fine della propria esistenza non è che l’aspetto più esasperato e definitivo di quella dell’“E se?”, e come questa porta alla mancanza di volontà nell’azione, alla passività nell’esistere poiché ogni cosa è vista come vana, senza significato se è nel nulla che la propria interiorità e quello che essa compie all’esterno, nel mondo, fra la gente attorno a sé, è destinato. Se un’interiorità vedesse e sentisse solo questo nulla nell’esistenza dovrebbe da sé darsi la fine, poiché esistere diverrebbe e sarebbe una maledizione e un maledire chi ce ne ha fatto dono, chi nel mondo presente sembra ignorarne tutta la sua vanità e inconsistenza cercando invece di dare e trovare un senso all’esistere nella felicità. L’unica cosa capace di riempire e sconfiggere l’apparente non essere, il vuoto su cui il mondo sembra reggersi, è la ricerca e la conquista della felicità per e attraverso sé e gli altri.